Associazione Culturale
i 4 Colori Primari

Andrea Pacanowski

ESISTENZE IN MOVIMENTO DENTRO LE IMMAGINI

Andrea Pacanowski ha attraversato un percorso stilistico simile a quello di grandi maestri, senza che questa considerazione voglia essere catalogata come uno dei numerosi paragoni stilistici che troppo spesso con superficialità, si leggono nei testi di coloro che fanno il mio stesso mestiere: Pacanowski non è infatti un pittore; egli è di fatto un artista senza pennello e senza solventi né colori artificiali. Pacanowski è artista con il cavalletto; di quelli a tre piedi, però.
Questo giovane romano di origine polacca, nasce inconsapevolmente tale, per un DNA, che come egli racconta, risiede nella sua famiglia da più generazioni. Ancora libero da pregiudizi scolastici, guidato dalla sola sensibilità e sulle orme ancora fresche dei suoi genitori, egli rivolge le proprie attenzioni su ciò che lo circonda, stimolato da un istintivo desiderio di approfondimento e sospinto dal più primitivo gusto del riscoprire, del toccare e manipolare, superando fin dal principio il solo senso della vista.
Egli vive per anni compreso in un cammino senza soste dove potersi rifocillare, ma piuttosto contrastante gli entusiasmi di chi giovanissimo, raggiunto presto l’apice del successo professionale, perduto ogni stimolo, persevera tenace lavorando fino a maturazione, pronto per un nuovo cammino. Oggi questo artista vive sprigionando cumuli di energia dalla sua mente prima ancora che dalle sue mani; le stesse, tuttavia, in simultanea complicità, fremono nel desiderio di plasmare la materia, rifiutando categoricamente la mera realizzazione dell’opera, la cui riuscita risieda unicamente nel creare un oggetto a cui dare la giusta collocazione. Piuttosto, Pacanowski scende a confronto con l’oggetto della sua creazione, ipotizzando per esso già sistemi aperti di relazioni che coinvolgano l’intera sfera sensoriale tra lui e il fruitore, nella sua totalità. Con le sue fotografie egli vuole significare un modo particolare di fare arte, con la quale instaurare un dialogo, come per rendere l’opera stessa dissolubile in un processo di relazioni interattive in continua metamorfosi. Pensiamo all’immagine “Uomini” nel suo reiterarsi sempre diverso delle figure umane distinguibili, seppur nel loro aspetto liqueforme. L’artista in questo caso come in altri, introduce con nuovo vigore la propria intenzione nel far confluire nella fotografia relazioni e interazioni fra i più diversi linguaggi espressivi che appartengono alle varie forme di arte, nonché il suo personale tentativo di elaborare una sorta di morfologia dell’espressione artistica e contemporanea. Egli compone la sua opera al pari di un musicista: la immagina perfettamente già nella sua mente e si serve per realizzarla di strumenti in totale armonia con i suoi pensieri, dando vita a quel sistema artistico di apertura, per cui ci si possa dirottare su strade prive di frontiere e in continua evoluzione. Si tratta di un’aspirazione per certi aspetti alchemica, nel tentativo riuscito di creare un linguaggio basato sulle sinestesie e sugli aspetti polisensoriali che risiedono appunto nelle probabili diversità di espressione. Tutti questi elementi messi insieme assumono in Pacanowski significato e urgenza particolari, fin dal primo momento in cui questo artista si prepara a creare il set per il suo primo scatto.
In maniera totalmente opposta egli si pone di fronte alla fotografia d’autore, troppe volte talmente distaccata e inespressiva nella resa, che è perfino difficile giudicarla tale: essa infatti si è appropriata del suo stesso universo, così vasto e articolato come di fatto è il mondo naturale, anch’esso interalleato e multiforme, servendosi del linguaggio tipico della comunicazione sociale, perdendo in questo modo carattere nel volersi uniformare nella propria accezione creativa.
Vi è inoltre un triste paradosso nel constatare come la pura fotografia, unico mezzo la cui resa di immagine possa essere totalmente fedele alla realtà, di essa finisca per mutarne i connotati, ormai totalmente travolta dalla ossessiva e fedifraga presunzione del fotoritocco. Pacanowski si pone di fronte allo stesso universo, reale e tangibile, ma con tutt’altri propositi, senza l’intenzionalità della post-produzione e senza avvalersi di strumenti tecnologici, se non al momento dello scatto. La sua idea di opera d’arte consiste propriamente in questo; egli non si pone l’interrogativo di quanto essa possa rivelarsi compresa tra un’identità fragile, confusa e difficile da sostenere, ma piuttosto grava in quest’artista l’incognita più complessa di quella realtà ancora inesplorata, che pronta per essere colta, disseminata e perfino proteiforme, davvero lo attrae e allo stesso tempo lo confonde per la sua molteplicità. Egli considera più importante possedere nuovi strumenti di giudizio e di interpretazione, per poi poterli integrare a quelli consueti, al fine di riuscire in un approccio interdisciplinare attraverso cui distinguere e definire quei modelli artificiosi, fondati soprattutto sulle apparenze. Dunque in Pacanowski risiede l’animo di colui che in perenne frenesia, motivato dall’amore, dal rispetto, dal timore e dall’entusiasmo per questa nuova vita, la ritorna ad apprezzare per assaporarne le infinitesimali sfumature scatto dopo scatto, senza ripensamenti.
Se i grandi maestri della storia dell’arte, spesso hanno intrapreso un percorso stilistico per poi abbandonarlo, trasformarlo o addirittura rinnegarlo, in nome di qualcosa di assolutamente opposto, ad esempio nel passaggio da un periodo figurativo a quello astratto, diversamente nelle fotografie di Pacanowski, l’immagine reale si perde dentro la matericità dei suoi stessi colori, quale riconferma della sola presenza preordinata al momento dello scatto. Come egli giunga nella realizzazione di opere di vera pittura solo fotografando, risiede in quella formula alchemica, per cui da ogni opera egli sprigiona un’impalpabile melodia musicale. Le sue immagini infatti vogliono stimolare tutti i sensi, così come proprio da essi esse scaturiscono: dal ruvido al grezzo, al liquefarsi di certe forme trasparenti, che lentamente si fondono in altrettante diversamente tangibili, talvolta riuscendo nella percezione delicatissima del ton sur ton.
Molteplici i segni o i segnali che si leggono su quei materiali che fungono da supporto primario nella realizzazione dell’opera stessa: la materia si trasforma in verbo attraverso il quale poter comunicare. In superficie essa si nutre del forte cromatismo per cui mette in evidenza tutte le campiture di luce, più in profondità essa funge da supporto materico, già determinato dall’artista all’inizio del suo operare e che se indefinibile per noi spettatori, risulta determinante per la riuscita stessa della fotografia. E ancora nella loro intimità, l’artista scava gli animi facendo risultare il segno grafico, gestuale della messa in opera, rapido quanto il “click” di uno scatto, che procedendo all’infinito trama matasse intricate e dense, quasi come fossero delle esemplari metafore pittoriche: Sensualità, Malinconia, Caos e poi ancora Ordine, quindi Silenzi, Sentimento e Passione, Meditazione. Sono dunque queste le diverse emozioni che compongono l’insieme fotografico in cui si alternano zone di colore piatto, uniforme, quasi impenetrabili e impermeabili, come l’idea della terraferma in un tormentoso pullulare di numerose emozioni, che solo la fotografia può immortalare. Dalle fotografie di questo artista, traspira il senso del tempo che lento passa tra uno scatto e l’altro, esattamente come avviene in pittura nel raggiungimento di una sedimentazione espressiva. Nelle opere fotografiche di Pacanowski il tempo scandisce simil pennellate materiche, che sovrapponendosi l’una all’altra, finiscono nel generare architetture segniche sterminate: non nella loro estensione spaziale, ma nella profondità e nel peso esistenziale che esse suggeriscono, di una vita vissuta fino ad ora, con estrema passione.